“‘Se un giorno tornerai’ è come parlare con le immagini”
Incontro streaming con Marco Mazzieri (regista)
di "Se un giorno tornerai"
In concorso per il Globo d'Oro 2020-2021
“Io ho fatto l’università del cinema con Michelangelo Antonioni che per me ha segnato una barriera, del raccontare attraverso immagini e non con le parole.” Questo è quanto ha detto il regista Marco Mazzieri durante l’incontro virtuale il 29 aprile 2021 con i membri della giuria del Globo d’Oro.
È una storia d’amore particolare, un amore ritrovato: cosa ha voluto raccontare con questo film?
Marco Mazzieri: “È la storia di un amore ritrovato, è vero, abbiamo mantenuto i nomi propri degli attori per una maggiore possibilità di identificazione coi personaggi. Era l’idea di mettere due persone in una specie di bolla, del ricordo e del ritrovarsi. Antonia spariglia le carte. Paolo si era chiuso nel suo silenzio dopo l’abbandono di lei, che poi ha cambiato tutto di nuovo. Io ho fatto l’università del cinema con Michelangelo Antonioni che per me ha segnato una barriera, del raccontare attraverso immagini e non con le parole. E qui abbiamo fatto questa scelta, di sottrarre spiegazioni e parlare con le immagini.”
Non c’è nulla di autobiografico
Due persone che si volevano bene, ma la moglie si sentiva inutile e non amata. Lei torna e trovano una giornata particolare. È un racconto sulla capacità di perdonare, ed è vissuto da lei o è narrazione?
“Non c’è nulla di autobiografico, io e mia moglie andiamo molto d’accordo, scriviamo insieme e siamo anzi molto uniti. Paolo e Antonia li abbiamo scritti proprio con l’idea di parlare del perdono, della capacità di perdonare, anche i propri errori. La richiesta assurda che Antonia fa al marito, di andare a parlare con l’altro uomo, è l’ultimo tassello di una donna disperata che vuole rimettere in gioco l’amore che ha per Paolo. Non abbiamo voluto rivelare subito il finale perché pensavamo che il pubblico avesse diritto a costruire il suo puzzle emotivo. ‘La notte’ di Antonioni ci ha ispirato molto, così come ‘Passione’ di Bergman.”
Eppure c’è qualcosa di autobiografico, magari i mille quadri di Paolo?
“Sulla pittura ha ragione, ho frequentato la scuola d’arte a Parma, poi a Roma alla scuola di cinema e in realtà mi mantenevo facendo l’illustratore per La Repubblica, facendo vignette nella pagina culturale. Il mio lavoro di pittore non si è mai fermato, sono figlio di un pittore, che ha vinto anche premi internazionali. Paolo è pittore perché io stavo procedendo con questo lavoro folle e ossessivo e che mi porterà a dipingere questi mille volti, in una personale nel 2022: alcuni di questi sono nel film. Inoltre la casa del film è dove io effettivamente ho abitato, nell’Appennino parmense, usata come studio. Volevo anche fare un film su quei luoghi. Il comune di Parma ci ha aiutato, così come l’Emilia Romagna. Il film è stato girato in 16 giorni grazie alla partecipazione di Invisibile Film, Jolefilm e anche Rai Cinema.”
i social ci hanno reso incapaci di comunicare i nostri sentimenti
Un film un po’ all’antica, un po’ lento ma intenso e pieno di sentimento. È stato tutto voluto?
“Il mio film del 2003, ‘Giovani’, parlava di due ragazzi che nell’arco di una giornata (il tema del giorno è una delle mie ossessioni) devono scegliere tra la vita e la morte. Lui perché ha la madre malata terminale cui dovrebbe applicare l’eutanasia, lei perché incinta di un professore universitario che vorrebbe abortisse, proprio perché sposato. In quel giorno i ragazzi fanno questa scelta ed era un film totalmente dogma, con macchina a mano. Questo film invece è il contrario, è fatto di quadri fermi. Il direttore della fotografia mi ha chiesto il perché di una regia così pittorica e sospesa, ma io ritenevo fosse l’unico modo di raccontare la stasi che avvolge queste due persone.”
La fotografia illumina la scenografia parmense. Come mai questa scelta di luoghi?
“Sono originario proprio di lì. Nelle riprese si nota questo castello, Torrechiara, che vi invito a visitare, divenuto set di grandissimi film, ‘Addio fratello crudele’, ‘Lady Hawke’, ‘I condottieri’. La cosa straordinaria è che nel 1973 Anton Giulio Majano venne a girare lì. Io avevo 14 anni, cercavano gente che sapeva dipingere e io andai, mandato da mio padre. Lì sono cresciuto, tra quelle colline c’è anche tutta la mia storia di essere umano. Anche se andai via tornavo spesso.”
Tutti i problemi di questa storia si basano sulla mancanza di comunicazione tra tutti i personaggi, figlio e amica compresi. Incomunicabilità costante. È vero?
“L’incomunicabilità è la parola più giusta. Attanaglia tutti noi. Siamo più bravi a scrivere frasi sciocche sui social che a dire a qualcuno “ti voglio bene”. Stiamo diventando un po’ artificiali, questi mezzi ci hanno reso incapaci di comunicare i nostri sentimenti, e volevamo che tutti avessero questa pecca, questa spina nel fianco, proprio perché racconta l’oggi. È tutto giocato sull’incomunicabilità.”
Il cinema ha il dovere di raccontare per immagini
La cupola del monastero è vera o no?
“La badia benedettina di Torrechiara, edificata dallo stesso conte che ha realizzato il castello, è una costruzione cinquecentesca, la cupola è in un belvedere esterno all’abbazia benedettina, settecentesco. L’abbazia fu anche teatro di scontri bellici. Tra l’altro sto finendo un piccolo documentario per ringraziare i frati che hanno conservato questa bellezza. Mio padre è stato uno dei restauratori dell’opera.”
Il cinema ha perso glamour per tornare quasi al neorealismo?
“Il cinema di oggi è obbligato a raccontare i sentimenti e quello che l’uomo sta diventando, forse è una scialuppa di salvataggio, rispetto all’audiovisivo che viene prodotto. Noi possiamo vedere serie tv senza guardare un’immagine e sappiamo benissimo cosa sta accadendo. Il cinema invece ha il dovere di raccontare per immagini, ma non credo sia vero che in Italia non si cerchi di fare un cinema legato all’identità anche meno ricche. Noi siamo un po’ più diretti verso una periferia molto romana, che secondo me un po’ sporca queste intenzioni di avanzata di protesta e ribellione che il cinema invece dovrebbe avere. Ma magari i cineasti si ripiegano in loro stessi, e tra loro mi ci metto anch’io. Perché non trovano finanziamenti per fare opere anche più coraggiose.”
La lentezza è uno degli aspetti salienti del film, in una vita dove si corre sempre, tornare alla lentezza vuol dire cogliere dettagli. Ha scelto consapevolmente?
“Grazie per questa annotazione. Quando lavoravamo al montaggio del film, io e Carlo Fontana, che è sceneggiatore e montatore, ha determinato il respiro di quel film. Essendo Fontana un cinefilo, abbiamo scelto il passo di questo film.”
Antonia Liskova è molto brava: ha pensato subito a lei per la parte?
“È stato un combattimento. C’era un’altra attrice indicata per questa parte, poi c’erano una serie di situazioni produttive complicate che non poteva incastrare, io forse non ero neanche troppo convinto e la produzione meno di me, poi ci siamo trovati a 15 giorni dall’inizio delle riprese senza la protagonista. Un’estrema difficoltà dunque. Io avevo visto ‘Respiro’, film che mi era piaciuto parecchio, in cui Antonia aveva espresso un naturalismo di recitazione molto importante. Così le ho mandato il copione. Il giorno dopo ha accettato. Sapendo che c’era un budget risibile per una protagonista del suo valore. Ha amato subito la storia. Quando poi ha visto questo luogo, coi trattori vecchi, i casermoni, la tradizione contadina che si è spenta, Antonia ha detto “È come se tornassi a casa, nella mia Repubblica Slovacca, e rivedessi luoghi a me familiari”.
“Se un giorno tornerai” partecipa al premio cinematografico Globo d’Oro dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, edizione 2020-2021.