“Gran parte di ‘Weekend è artificiale”

Weekend

“Gran parte di ‘Weekend è artificiale”

Incontro streaming con Riccardo Grandi (regista)
di "Weekend"
In concorso per il Globo d'Oro 2020-2021

 

“L’idea era fare un classico mystery alla Agatha Christie, che però poteva essere più contemporaneo e farlo diventare più thriller.” Questo è quanto ha detto il regista Riccardo Grandi durante l’incontro virtuale il 6 aprile 2021 con i membri della giuria del Globo d’Oro. 

‘Weekend’ esce in streaming lo scorso dicembre e ci porta in una casa, rinchiusi. Ha ricordato molto il lockdown vissuto. Ma il progetto era nato prima?
Riccardo Grandi: “È nato prima del lockdown, ma poi a causa di questo si è interrotto, avevamo iniziato a girare nel febbraio 2020 poi ci siamo dovuti fermare. Durante quei mesi, perché abbiamo ripreso a giugno, ci sono stati cambiamenti obbligatori. Il film andava girato entro quelle date, ma alcune scelte sono state cambiate proprio perché frutto del lockdown. Siamo stati anzi tra i primi a ricominciare a lavorare, con l’uso di dispositivi sul set, i tamponi e così via. La produzione cinematografica è diventata più complicata a causa del Covid. Gli attori non possono recitare con le mascherine, quindi devono seguire profilassi ben precisa, tamponi settimanali e via dicendo.”

Come si è sviluppata questa idea?
“È una storia originale, che ho scritto insieme ad altri sceneggiatori. Non abbiamo adattato un romanzo o nulla di esistente, è tutto frutto di una discussione creativa, nata apposta per fare il film. L’idea era fare un classico mystery alla Agatha Christie, che però poteva essere più contemporaneo e farlo diventare più thriller. Io ho sempre amato Polanski, Hitchcock, e l’idea di autolimitarsi e creare una storia che potesse avere un set limitato era uno degli obiettivi, ci siamo dati delle gabbie, che forniscono anche opportunità stilistiche.”

La casa se fosse un quinto personaggio

Nonostante i luoghi molto circoscritti, il film funziona, che tecniche ha usato per raggiungere questo esito positivo?
“Abbiamo utilizzato la tecnica del confinamento in un luogo di spazio e di tempo. Ha aiutato in questo l’idea di utilizzare la casa come se fosse un quinto personaggio, creata da zero in teatro, come si faceva una volta, con pareti smontabili, piena di passaggi da dove poter entrare. La casa è entrata nella storia diventando quasi co-protagonista. Dal punto di vista narrativo avere un delitto e quattro potenziali sospettati ci dava un marchingegno narrativo per coinvolgere lo spettatore. Non volevamo essere troppo banali nel trovare un unico colpevole, quindi abbiamo sfaccettato la verità rendendola più complessa.” 

Quale messaggio ha voluto raccontare?
“Anche se può sembrare un messaggio negativo, non credo che il cinema debba lavorare sul messaggio in sé. È un film sull’amicizia ma certo non vuole dire che l’amicizia non esiste, tutt’altro. Mette però il focus sul fatto che gli esseri umani possono essere anche feroci come animali. Non è un messaggio, è un punto di vista sull’esistenza.” 

Il film si presenta come horror ma non lo è; pensava a un horror all’inizio e poi lo ha modificato?
“C’è l’orrore in realtà, ma è l’orrore quotidiano e non paranormale. Quello che può capitare a tutti in una fase della vita, di gioventù, quando si sfiorano un po’ i limiti di certe situazioni. Dunque sì, a volte il film ricorda un horror, c’è la neve, il vento, la casa buia, ci sono tutti gli ingredienti che potrebbero farlo credere, e di fatto lo è, ma non ci sono mostri o manifestazioni paranormali. Però è un horror che vivono i protagonisti.”

Amazon è stata la nostra fortuna

In una recensione sul film si leggeva che l’unica “pecca” sarebbe che alla fine il regista si è visto quasi costretto a “forzare la mano”. E’ d’accordo?
“Era un modo metaforico per rappresentare il contrasto tra la luce e il buio, questa dicotomia tra estate e inverno, questo yin e yang. Sul fatto di forzare la mano non saprei, certo è che quando si realizza qualcosa con questi ingredienti, un pochino è bello e mi sono divertito a farlo, portare la situazione verso l’estremo e poi farla esplodere sul finale, in una escalation. Non volevamo fare un film che potesse annoiare, dunque abbiamo sempre più alzato la posta, arrivando ad un finale a sorpresa. Quasi tutti ci hanno detto che era inaspettato, ed è l’obiettivo per questo genere di film.”

Quali sono state le più grandi difficoltà a girare il film per lei, per gli attori?
“La casa non esiste, è un luogo che era solo nelle nostre fantasie, gli interni erano in un teatro, gli esterni creati al computer. Non è stato facile, e la situazione del Covid ha complicato tutto. Anzi è stata una missione quasi impossibile, un’agonia. È stata una storia di determinazione di tutto lo staff. Quando è arrivato il Covid volevamo tirare i remi in barca e dire “Basta, non si può fare”.

Eravamo a metà, ma qualcosa ci ha detto di andare avanti. Una società di post produzione ci ha aiutato a razionalizzare i problemi e abbiamo finito il film. A quel punto nessuno ci aveva garantito che il film potesse uscire in sala o in streaming. Per fortuna dopo esserci buttati e giocandoci il tutto per tutto è arrivata Amazon, che ha voluto vedere cosa stava venendo fuori e ha distribuito il film. È stata la nostra fortuna. Inoltre è stato difficile girare le scene sulla neve, poiché le abbiamo realizzate in giugno, non ovviamente sulla neve ma in un posto vicino Roma, ricreando uno scenario con neve artificiale e questo ha comportato costi extra molto rilevanti. Gran parte del film è dunque artificiale, costruito.”

Il film mette spesso lo spettatore sul piede sbagliato. Appena si convince che qualcuno è colpevole la luce cade su un altro. Succede più volte. Questo dà un elemento “giocoso” del film. È d’accordo?
“Complimenti per questa domanda, riguarda proprio la nostra missione principale, ossia scrivere qualcosa che non fosse scontato. Abbiamo scritto immedesimandoci nel pubblico, che poi è la chiave per scrivere qualunque film. In particolare vale per un mystery che non può tradire il pubblico, deve ingaggiare un gioco dove il pubblico si sente motivato, ma non come magari se lo aspetta.”

Le ispirazioni sono Hitchcock e Polanski

Per capire bene un thriller gli esperti dicono che bisognerebbe vederlo almeno due volte. Anche secondo lei è così?
“Assolutamente sì. C’è una macchinazione degli autori dietro alla storia, la prima volta lo si vede con gli occhi dell’inconsapevolezza, ci si sofferma di più sulle rivelazioni, la chiave è lo stupore, la seconda volta si vede con consapevolezza e si finisce per apprezzare le dinamiche psicologiche, reali tra i personaggi. C’è questa serie tv ‘Undoing’, con Nicole Kidman e Hugh Grant, a me è piaciuta molto, l’ho rivista due volte, la prima ero sopraffatto dalla curiosità del mistero, la seconda volta mi sono focalizzato sulle sfaccettature psicologiche dei personaggi.”

C’è un film o un regista che l’ha ispirata per questo film?
“Le ispirazioni sono, come detto, Hitchcock e Polanski, ma a livello narrativo e di scrittura non ho un riferimento. Da quel punto di vista i riferimenti sono altri, mi viene da citare mostri sacri, Bergman o David Mamet, o Jacques Audiard, autori che hanno sempre messo la storia al primo posto.”

Spesso nelle produzioni cinematografiche italiane di ultima generazione si trovano dialoghi ‘didascalici’ oltre che interpretazioni che rimangono per lo più in superficie e sono espressioni da cliché. Riscontra anche Lei questa mancanza di un approccio più profondo e meno scontato e – se si – quali potrebbero essere le cause?
“Un po’ è vero, le cause sono sicuramente nella nostra cultura di voler dare sempre un racconto con una certa visione morale, inoltre un’industria viziata dalla sua componente televisiva, rischia di essere un po’ cliché e didascalica. Spesso i film peccano un pochino nel voler dare messaggi, insegnare come il mondo dovrebbe andare, cosa è giusto e cosa è sbagliato. 
Sulle interpretazioni è la stessa causa, la tv ha formato grandi numeri di attori, con questo tipo di mood, l’industria cinematografica non è così florida, quindi un attore ci mette un po’ a diventare famoso o a farsi conoscere.

Matilda de Angelis è un rising star

C’è mancanza di fiducia nei giovani attori in Italia, e come mai?
“Secondo me c’è una mancanza di ruoli adatti, e soprattutto c’è una mancanza di una industria che favorisce la nascita di talenti, e che non li coltiva. Tende a celebrare il consolidato. Consacra le interpretazioni di un bravissimo Favino, per esempio, e succede per meccanismo di mercato che Favino continua a crescere, e magari il nuovo potenziale Favino di 27 anni non riesce a varcare quella soglia e a fare cose di qualità.”

Quali attori o attrici ci segnaleresti?
“Sicuramente Matilda de Angelis è un rising star, è stata straordinaria su ‘Undoing’, quindi punterei su di lei sicuramente. Gli altri non sono già più giovani, come Alessandro Borghi o Luca Marinelli, bravissimi della nuova generazione, ma non sono neanche più loro giovanissimi.”

Se può dire qualche curiosità su questa collaborazione con Budina, figlia d’arte in Albania? Com’è nata? Com’è stata?
“Più Paesi entrano più aumentano le potenzialità anche a livello finanziario. La partecipazione albanese è stata minima, a un certo punto volevamo ampliarla, andare a girare lì anche una parte di film, ma poi tutto il discorso del Covid ci ha costretti a rivedere i nostri piani.”

I suoi attori, visto che tutto gira attorno alla loro relazione d’amicizia, come sono stati scelti?
“Inizialmente il film nasceva come progetto americano, poi non siamo più riusciti a farlo. Nella prima versione dovevamo anche usare due squadre di attori diversi, i giovani e gli adulti. Passano comunque solo 7 anni dall’estate del passato fino al presente, per cui ho voluto lavorare con gli stessi attori. Abbiamo lavorato sul ringiovanimento dei ragazzi per il passato e sull’aging durante il presente. Alla fine un lavoro soddisfacente, riuscito in team, con attori e truccatori, parrucchieri, costumisti. Abbiamo proprio creato due personaggi diversi. Andava anche raccontato il protagonista com’era allora e com’è diventato oggi. 
Avevamo in mente solo i personaggi, poi diventati questi attori. Sicuramente i caratteri dei personaggi erano delineati, tipo quello di Federico, appena entrato dalla porta, per me era lui, mi serviva questo volto particolare e questa ambiguità, tant’è che è il primo su cui cadono i sospetti. Alessio Lapice è stato un’altra scelta fatta subito. Riesce a parlare tantissimo con la faccia e col corpo. Avevo bisogno di attori comunicativi, inoltre erano sempre sul set, quindi dovevano essere quattro pilastri.” 

Quali conseguenze pensa che la pandemia avrà sulle sale che speriamo riapriranno?
“Penso che lo streaming sia uno strumento che arrichisce la possibilità di rischiare. Alimenterà l’industria. La sala è vincolata da legacci più rigidi. Un film magari ha avuto meno pubblicità, o magari è sovrastato dall’uscita di un grosso blockbuster, invece in streaming il film può avere una sua vita, non è sottoposto alla spada di Damocle del primo weekend. Amazon, Netflix e altre piattaforme abbiamo visto che scommettono un po’ di più sugli autori, sulle scommesse, cosa che il cinema mainstream fa un po’ meno. Detto ciò, speriamo che la sala torni a splendere come prima, per noi è intoccabile. Certo non sarà indolore ricominciare, bisognerà rimettere in discussione tante cose, a partire da come sono fatte le sale.”

“Weekend” partecipa al premio cinematografico Globo d’Oro dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, edizione 2020-2021.